martedì 28 aprile 2009

Il medico di corte





Ritratto della principessa Louise Auguste, Anton Graff, 1791, Collezione del Castello di Rosenborg



Ritratto di Johann Friedrich Struense



Ritratto della regina Carolina Matilde di Hannover, Jens Juel, 1771

Per Olov Enquist, Il medico di corte (Livläkarens Besök, 1999), "Universale Conomica Feltrinelli", 1909, Feltrinelli, Milano, traduzione dallo svedese di Carmen Giorgetti Cima, 327 pagine.

Enquist fruga tra le fronde dell'albero genalogico della dinastia reale danese, la seconda più antica al mondo, ricostruendo il periodo della cd. "Rivoluzione danese" e del suo tragico epilogo.

Il 14 gennaio 1766, alla morte del padre, Federico V, sale al trono di Danimarca e Norvegia, Cristiano VII, all'età di diciassette anni. Lo stesso anno Cristiano sposa per procura, il 1 ottobre, Carolina Matilde di Hannover, sua cugina di primo grado e sorella di Giorgio III re di Gran Bretagna.
Il matrimonio formale si celebrò a Copenaghen l'8 novembre del 1766. I rapporti coniugali furono molto scarsi (Enquist sostiene che si limitarono ad uno solo) ma abbastanza però a far si che la regina rimanesse incinta e partorisse Il 28 gennaio del 1768 l'erede al trono, Federico VI.
Il 12 gennaio 1769, Cristiano tornò a corte dopo un viaggio che lo aveva portato a visitare Altona, Parigi e Londra. Lo aveva accompagnato in quel viaggio un medico di Altona, illuminista, Johann Friedrich Struensee che tornò a Copenaghen con lui.
In breve, Cristiano, affetto da probabile schizzofrenia e da disturbi mentali, affidò il governo a Struensee che iniziò a promulgare provvedimenti di ispirazione illuminista con l'intento di riformare il regno.
In questo periodo il medico tedesco riuscì a vincere l'ostilità manifestata per lui da parte della regina e, successivamente, a divenirne l'amante. Il 17 giugno del 1771 la regina partorì il suo secondo figio, la principessa Luisa Augusta che, anche sulla base delle evidenti somiglianze ravvisabili nei ritratti, si dice fosse la figlia di Struensee.
L'opera riformatrice di Struensee non si fermò e, insieme allo scandalo suscitato dalla relazione che intratteneva apertamente con la regina, decretò la risposta restauratrice ad opera della regina vedova, la matrigna di Cristiano, Giuliana Maria di Brunswick-Lüneburg e di Ove Høegh-Guldberg.
Struensee e la regina vennero arrestati il 17 gennaio del 1772, il medico fu imprigionato e torturato e confessò la relazione con la regina. Carolina, reclusa nel castello di Kronborg (quello di Amleto...) alla notizia della confessione dell'amante ammise anch'essa la relazione.
Il 28 aprile del 1772 Struensee fu giustiziato pubblicamente, dapprima con il taglio della mano destra, quindi decapitato. Il suo corpo fu squartato ed esposto al pubblico.
La regina, dopo il divorzio, fu esiliata a Celle, in Germania dove morì l'11 maggio 1775.

La modestia dell'aspetto gli fu peraltro a lungo di una certa utilità. Durante la rivoluzione danese, era stato protretto dalla sua aria insignificante. I personaggi importanti sparirono, si annientarono a vicenda. Restò Guldberg, l'insignificante, e tuttavia il più grande nella foresta di alberi abbattuti che si era trovato davanti.
L'immagine dei grandi alberi abbattuti lo seduceva. In una lettera, scrive della relativa piccolezza dei grandi alberi nel periodo di crescita, e della loro caduta. Nel corso dei secoli tutti i grandi alberi del regno di Danimarca erano stati abbattuti. Soprattutto le querce, che si usavano per costruire navi. Era rimasto un regno privo di querce di qualche importanza. In quel paesaggio devsatato, dice di sentirsi crescere come un arbusto che s'innalza sopra i ceppi dei grandi alberi abbattuti e sconfitti.
Non lo scrive ma il sottinteso è evidente,. Così la grandezza sorge dalla mediocrità. p.16


In copertina, ritratto di Cristiano VII di Danimarca



Copertina dell'edizione Iperborea, 2001



Copertina dell'edizione Norstedts, 1999


lunedì 27 aprile 2009

Sempre caro




Antonio Ballero, Un incrocio campestre, da Sardegna Digital Library

Marcello Fois, Sempre caro, "ET Scrittori", 1562, Einaudi, Torino, 2009, prefazione di Andrea Camilleri, 92 pagine.

Primo romanzo, che nel 1998 valse a Fois il Premio Scerbanenco, in cui compare l'avvocato e poeta nuorese Bastianu Satta, protagonista di una trilogia (proseguita con Sangue dal cielo e L'altro mondo) ambientata nella Sardegna (nella Barbagia, nell'Ogliastra e nel nuorese in generale) di fine Ottocento.
La storia, un noir, che parla di delitti di paese e banditismo è solo il filo conduttore di una riflessione, fatta di contrasti, sull'assimilazione forzata della Sardegna dopo l'unità di Italia.

[...] - Vede quanta strada abbiamo da fare noi? Non siamo cittadini qualunque, non italiani come gli altri. Noi siamo carne da lavoro e cani da guerra.
- Lo dice lei questo...
- Ma lei ha un'idea di cos'era questo posto? Questa gente ? Come si può pretendere che capiscano se nessuno spiega niente ?
- Avvocà, con questa storia di spiegare mi sa che voi ci marciate, come si dice dalle nostre parti... Voglio dire che quando volete riuscite a capire al volo...
- Una cosa l'abbiamo capita subito e senza che ci fosse bisogno di spiegarcela: di quello che siamo, di quello che siamo stati, di quello che saremo, non importa niente a nessuno. p.34

Avevo tante di quelle cose in testa ! Tante cose che facevo fatica a metterle in ordine. Mi capitava alle volte, anche nello studio. Non riordinavo subito una pratica e finiva che non riuscivo più a trovarla. Alla mia madre diceva che le cose si devono mettere a posto a poco a poco, quando sono ancora gestibili, che se si lascia spazio al disordine poi viene lo scoraggiamento e non si riesce più a riordinare e si perde un sacco di tempo. p.54

Avevo il mio spazio in una radura brulla che faceva da terrazzo in direzione del versante orientale di Badde Manna. In cima la colle di Sant'Onofrio. E già il solicello della primavera incipiente rimandava bagliori rossastri. Presi posizione sul mio masso. Un sedile di granito che mi aveva scolpito il vento. Appoggiai il mento alle mani riunite sulla cima del mio bastone e restaia guardare. Un astòre sondava il terreno alla ricerca di lepri e topi di campagna. Uno sbaffo di nuvole basse incupiva la luminosità opalescente del primo pomeriggio. Il vedre della vallata era grasso come se il terreno fosse pronto ad esplodere in una turbolenza muta:

Nel silenzio la terra
La grande anima esala


Che è verde. Una grande anima verde che si fa largo tra i graniti grigiorosa. Questa si che è la tavolozza di Ballero. Ora si riconosce lo sbaffo poroso della linea dell'orizzonte, in fondo, a mare, superata la cresta incipriata delle Dolomiti olianesi. E la bruma cenerina che sfonda nell'arco d'azzurro turchese del Golfo di Orosei. p.79


Copertina, Franco Pinna, Sardegna (strada Bosa - Macomer), 1961



Copertina dell'edizione Il Maestrale (Frassinelli), 1998 (foto di Alessandro Contu)



domenica 26 aprile 2009

Le stanze di Mogador


Fotografia di Andrew Bell. Alba sulla spiaggia di Sitakunda


Le sculture di Filippo Bentivegna, Il castello incantato, Sciacca



Gian Luca Favetto, Le stanze di Mogador, "Verdenero", 16, Edizioni Ambiente, Milano, 2009, 332 pagine.

Romanzo del viaggio che si discosta un po' dagli altri della collana.
Favetto usa la cronaca, l'illecito ambientale nella forma, qui, dello shipbreaking, dello smantellamento illegale di vecchie navi, senza attenzioni per gli uomini e l'ambiente come elemento di una narrazione che tocca spazi più ampii.
Qui l'intervista a Favetto.

La copertina




Visualizzazione ingrandita della mappa

giovedì 23 aprile 2009

Le pecore e il pastore

Non riesco a tirare nessuna conclusione da questa vicenda, né per me né per i miei lettori. O forse le conclusioni mi porterebbero inevitabilmente lontano, tanto indietro nel tempo, quanto in avanti, fino alla tragica attualità dei giornoi nostri. Sarebbe il caso?


La lapide che ricorda l'eccidio di Portella della Ginestra compiuto il 1 maggio 1947


Riproduzione della lettera che il diavolo avrebbe fatto recapitare alla venerabile Maria Crocifissa (Isabella Tomasi 1645-1697) benedettina del monastero di Palma di Montechiaro


Consigliato dalla Congregazione dell'indiceAndrea Camilleri, Le pecore e il pastore, "La memoria", 707, Sellerio, Palermo, 127 pagine.

Sbalordito dalla lettura di una nota a pie di pagina in un libro sulla vita del Vescovo di Agrigento, Giovanni Battista Peruzzo, che riportava la notizia del sacrificio di dieci giovani suore del convento di Palma di Montechiaro in cambio di quella del vescovo ferito in seguito ad un attentato, Camilleri ricostruisce il clima di un periodo nero, tra i tanti, della recente storia siciliana.
Nel comporre la sua ricostruzione parte da lontano, dalla vita di Rosalia Sinibaldi, la "Santuzza", patrona di Palermo passando per la storia della fondazione della "città santa" di Palma di Montechiara ad opera dell'altrettanto santo duca, in seguito principe, Giulio Tomasi di Lampedusa, avo dell'autore del Gattopardo, che a Palma fece costruire, per le sue figlie, un monastero di cui la figlia maggiore, Isabella, la Venerabile Maria Crocifissa della Concezione, divenne riferimento e ispirazione mistica.
La narrazione si focalizza quindi nell'immediato dopoguerra (per la Sicilia), nel 1943 delle rivendicazione contadine per la terra e della brutale repressione culminata, qualche anno più tradi, nell'eccidio di Portella della Ginestra.
Fatti vissuti in prima persona dal ventenne Camilleri, che connobbe personalmente il vescovo di Agrigento, schierato dalla parte dei contadini pur essendo un dichiarato anticomunista.
Il sacrificio collettivo delle giovani suore, su cui grava ancora oggi un pesante riserbo, è qualcosa che scuote l'Autore fin nel profondo e lo spinge ad immaginarsi il contesto e ricostruirne l'ambientazione per cercare di comprendere qualcosa che, probabilmente, non è comprensibile.
Camilleri segue sempre più decisamente le orme di Sciascia e nonostante tutte le invidie derivanti dal successo commerciale del Commissario Montalbano tiene benissimo il passo.

Copertina, Il Nunzio di Fernando Botero, 1962, Collezione privata.



mercoledì 22 aprile 2009

Confessioni di un cuoco eretico





David Madsen, Confessioni di un cuoco eretico (Confessions of a Flesh-Eater, 1997), "Primo Parallelo", 18, Meridiano Zero, Padova, 2006, traduzione dall'inglese di Francesco Francis, 216 pagine.

Il titolo italiano, trae un po' in inganno. Di eretico Orlando Cripse ha poco e Madsen ricicla alcuni spunti dai suoi studi di gnostica già riversati abbondatemente nelle Memorie di un nano gnostico.
La storia in apparenza ha delle somiglianze con il film di Greenaway, Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante ma il protagonista del romanzo ha in realtà scoperto le alchimie segrete della carne per caso e la sua arte creativa è metodica e non detatta dalla gelosia.
Il cannibalismo è uno dei tabù più resistenti e trasversali della specie umana, Madsen ci scherza proponendo ricette elaborate (ha scritto anche un libro di ricette, Confessions of a Flesh-Eater Cookbook).
Non risucito come il suo primo romanzo ma con qualche spunto interessante anche, se per la verità, il tema è un po' inflazionato (c'è chi sostiene che la storia di Hänsel e Gretel si ispiri a un episodio di cannibalismo...).

- È un ossessione, quest'amore per le carni, - dice.
- Come ogni pscichiatra che si rispetti, dottore, - ribatto io, - il suo maggior talento sta nel mettere in evidenza l'ovvio. Ciò che non è ovvio, lo ignora, e quando non c'è nulla di ovvio da mettere in evidenza, se lo inventa.
p.10

NOISETTES À LA CRÈME AU CŒUR DE PASSION

1 piccola sella di carne con l'osso divisa in due lombatine e 2 filetti
1 spicchio d'aglio pelato e schiacciato
150 fr di panna molto densa
5 cucchiai di olio vegetale
1 rametto di timo fresco
Pepe nero tritato sul momento

Prima di preparare le noisettes, sistemate la carne in una borsa frigo. Il cuoco deve togliersi tutti gli indumenti e adagiarsi di schiena su un letto comodo, con la testa appoggiata su un cuscino rigido e sostenuto. È fondamentale un sottofondo musicale che evochi sensazioni di tenero erotismo - non si richiede, si badi bene, la cieca impellenza della lussuria, ma un generico senso di crescente eccitamento. La scelta dei pezzi musicali varia naturalmente da individuo a individuo; personalmente ho sempre trovato che il Concerto di Aranjuez di Rodrigo è quello che ottiene il miglior risultato.
Nella borsa frigo contenente la carne si introdurranno quindi i genitali, poi si richiuderanno i bordi. La borsa dev'essere piuttosto grande, dal momento che viene richiesta un'erezione (ma non l'eiaculazione); in effetti, in assenza dell'erezione, al prodotto finale mancherà il gusto pungente che dovrebbe correttamente avere. Il cuoco a questo punto potrà concedersi un pisolino: si richiedono almeno 2 ore.

Al risveglio, i genitali, vanno immediatamente tolti dalla borsa e la carne messa da parte. La condensa che si sarà formata all'interno della borsa va meticolosamente raccolta in una piccola coppa di vetro. Siate pazienti, più condensa si riesce a raccogliere, meglio è. Tagliare la borsa e raccogliere ogni gocciolina utilizzando la lama di un coltello, se necessario.

Tornati in cucina, preparate le noisettes. Con un coltello ben affilato tagliare ciascuna lombata in sei noisettes, ognuna dello spessore di circa tre cm. Cucire i filietti in tre o quattro punti con dello spago e tagliarli in quattro fettine. Metterli da parte.
Mescolare due cucchiai di olio, l'aglio schiacciato, il rametto di timo e la condensa raccolta in precedenza dalla borsa. Far cuocere a fuoco lento, rimescolando continuamente, per circa 6 munti. Aggiungere la panna, due cucchiai da tavola di acqua fredda, pepe nero per insaporire, e far sobbollire dolcemente per circa 15 minuti, o fino a quando il liquido non acquisti la consistenza di una salsa. Togliere il timo.
Riscaldare l'olio rimasto in una padella e aggiungere la carne, facendola rosolare da ogni lato. Continuare fino a che non sarà un poco più che al sangue. Servire su un piatto caldo, ricoprendo con la salsa. p.146

Ho mangiato mio padre.
D'accordo, detta così effettivamente suona un po' outrée, ma a che vale infiocchettare il nocciolo della faccenda da tanti preamboli pseudopsciologici e autoassolutori? Un genio non deve mai scusarsi, e io non ho la minima intenzione di farlo. p.169

Copertina, illustrazione di Valerio Bindi.



La copertina dell'edizione inglese Dedalus, 1997



Copertina di Confessions of a Flesh-Eater Cookbook, Dedalus



lunedì 20 aprile 2009

James Graham Ballard

James Graham Ballard (Shanghai, 15 novembre 1930 - Londra, 19 aprile 2009)
A lot of my prophecies about the alienated society are going to come true...
Romanzi

1961, Il vento dal nulla (The Wind From Nowhere)
1962, Deserto d'acqua o Il mondo sommerso (The Drowned World)
1964, Terra bruciata (The Burning World o The Drought)
1966,  Foresta di cristallo (The Crystal World)
1973, Crash (Crash)
1974, L'isola di cemento (Concrete Island)
1975, Condominium o Il Condominio (High Rise)
1979, L'allegra compagnia del sogno (The Unlimited Dream Company)
1981, Hello America o Ultime notizie dall'America (Hello America)
1984, L'impero del sole (Empire of the Sun)
1987, Il giorno della creazione (The Day of Creation)
1988, Un gioco da bambini (Running Wild)
1991, La gentilezza delle donne (The Kindness of Women)
1994, Il paradiso del diavolo (Rushing to Paradise)
1996, Cocaine Nights (Cocaine Nights)
2000, Super Cannes (Super-Cannes)
2003, Millennium People (Millennium People)
2006, Regno a venire (Kingdom Come)

Attentato

Consigliato dalla Congregazione dell'indiceAmélie Nothomb, Attentato (Attentat, 1997), "Amazzoni", 8, Voland, Roma, 1999, traduzione dal francese di Biancamaria Bruno, 116 pagine.

Copertina dell'edizione italiana, Voland, disegno di Enrica De Natale, 1999



Copertina dell'Edizione Albin Michel, 1997



giovedì 16 aprile 2009

Il paese di Saimir





Valerio Varesi, Il paese di Saimir, "Verdenero", 15, Edizioni Ambiente, Milano, 2009, 312 pagine.

Saimir è un ragazzo di diciassette anni. Lavora in in nero come muratore insieme ai suoi compagni. Ogni mattina viene prelevato da un caporale e viene scaricato al cantiere dove si sta costruendo un palazzo lucrando sui materiali. Saimir rimane intrappolato nelle cantine del palazzo quando questo crolla. Rimane due giorni sotto le macerie, vivo per miracolo. I suoi tre compagni, albanesi come lui, clandestini come Saimir credono che sia morto e non danno l'allarme, perché hanno paura, perché sono ricattabili, perché hanno perso la loro umanità in qualche punto del percorso che dal gommone li ha catapultati nelle strade di un paese qualunque delle Penisola. I compagni di Saimir vengono convinti a non denunicare la morte, vengono comprati per il loro silenzio.

Storia travasata nelle pagine del libro direttamente dalla cronaca quotidiana purtroppo talmente comune da non fare quasi mai notizia.

Poi penso a ciò che avrei fatto io se qualcuno dei miei compagni fosse rimasto sotto le macerie. Non avrei dubbi: lancerei l'allarme e chiederei soccorso. Ma se ci penso bene, non ne sono così sicuro. Il fatto è che siamo un mucchio di marionette e decidiamo istante per istante ciò che vogliamo essere. Se rivivessimo venti volte la stessa giornata, non ce ne sarebbe una uguale. E allora cosa possiamo chiedere? Decidono per noi le opportunità, le tentazioni e gli obblighi che ci si presentano davanti. La miseria e l'ignoranza fanno il resto. Così, di fronte al luccicare della vita si fa presto ad acconatonare una promessa o più semplicemente la solidarietà. p.149-150

E se pensava a tutte le faccende che aveva sbrigato rischiando del proprio, spezzandosi la schiena per ottenere risultati, si dava dello stronzo. Mai mettere troppo entusiasmo nel lavoro in conto terzi. Pensare a se stessi evita di sentirsi stupido dopo. p.153


La copertina



mercoledì 15 aprile 2009

Con la morte nel cuore




Villa Scheibler a Quarto Oggiaro

Gianni Biondillo, Con la morte nel cuore, "TEADUE", 1445, Tea, Milano, 2007, 443 pagine.

C'è poco da aggiungere a quanto ho scritto per per gli altri libri di Biondillo perchè la storia è la narrazione della vita dell'ispettore di polizia Michele Ferraro. C'è poco da dire se non che è stato bello avere altre pagine da leggere e che non bastano mai...

A conti fatti il più bel parco di Milano resta il PArco Lambro. Certo, al posto degli scoiattoli, come nello Schönbrunn, ci girano delle pantegane che a vederle fanno paura, però, se uno non le disturba, normalmente non danno fastidio. Sono animali riservati.
E poi le pantegane uno le può trovare acneh nel giardini di Villa Reale, a PAlestro. Un giardino che è un incanto , ma piccolo e troppo affollato.
Quelli di Porta Venezia poi, per quanto nobili e pieni del salutismo borghese fine Ottocento, sono pur sempre dei giradini, non un parco. C'è il Sempione, è vero. Ma, detto tra noi, al di la della ottima collocazione, non è più il parco di trent'anni fa. Mette tristezza. Non voglio parlare poi del PArco delle Basiliche. Solo un piazzista poteva chiamare Parco quel prato spelacchiato. Ci vuole coraggio oppure malafede, vedete voi. La nuova cancellata ha cambiato ben poco. Gli spacciatori si sono spostati di pochi metri, i barboni dormono sotto i portici dell'esattoria, l'abside di San Lorenzo, una delle più straordinarie esperienze architettoniche del mondo, ora è un po' più difficile ammirarla da lontano. Ma tanto non se l'è mai cagata nessuno, quindi, appunto, cambia poco.
C'è il Trenno. Ha una buona estensione, e poi c'è il piccolo cimitero di guerra britannico, luogo di pace e di meditazione. Poi c'è sicuramente il Monte Stella. Tumulo dei detriti bellici, sepoltura simbolica del passato, mitologia urbana meneghina, che vuole rinascere in aletzza, nel centro di una pianura piattissima.
Belli, va bene. Ma il Parco Lambro è il più bello. Il fiume è vero, non un canaletto artificiale con le paerelle finte; i movimenti della terra, gli avvallamenti, i montarozzi, le cascine, le marcite... lo giri r rigiri e cambia il paesaggio. Non è piccolo, il Lambro. Non è enorme, non esageriamo, a Milano il verde è una perdita di tempo, sono soldi buttati, sai quanto ci fai al metro quadro se lo rendi edificabile? Però non è piccolo. È un parco vero. p. 229-230

«Insomma, basta. Tu e le tue menate sull'amicizia, la solitudine, le sfighe... cosa sei, l'unico che se lìè preso nel culo dalla vita? Vuoi vedere il mio deretano? Sembra un portaombrelli!» p.247


Copertina, foto di Toni Nicolini (Azibul), Grafica Studio Baroni, 2007



Copertina dell'edizione Guanda, 2005



venerdì 10 aprile 2009

Annibale


Francisco Goya, Annibale vincitore che rimira dalle Alpi l'Italia, 1770, Fundación Selgas-Fagalde


Paolo Rumiz, Annibale. Un viaggio, "I Narratori", Feltrinelli, Milano, 2008, 189 pagine.

Uno dei pochi motivi per cui valga la pena di leggere un quotidiano ad agosto è quello di leggere alcuni rari inserti che, normalmente, non trovano spazio tra le pagine degli altri mesi. Da anni sono un appassionato lettore degli inserti di Paolo Rumiz che pubblica la Repubblica. Di solito sono anticipati da qualche disegno di Altan e si presentano con un dispiegamento di cartine e tappe che fanno venire voglia di partire subito.
Questo libro è l'adattamento de Il ritorno di Annibale, uscito a puntate nell'agosto del 2007 su "la Repubblica".
Annibale, come Ulisse, è un archetipo del Mediterraneo, qualcosa che accomuna molti dei popoli affacciati su questo mare ma Annibale Barca è stato anche un personaggio storico e, leggendo il resoconto del viaggio di Rumiz, mi ha colpito il fatto di essere caduto anch'io, nonostante i, per la verità, non freschissimi studi di Storia Romana, nella rimozione collettiva seguita alla sua damnatio memoria.
Non mi ricordavo che fosse rimasto tredici anni in Italia, né che si fosse spinto fino in Armenia né tantomeno che, ad un certo punto, fosse diventato persino il garante della pax romana a Cartagine...


Comincio a chiedermi cosa e chi sto cercando forse Annibale non è un uomo, è una malattia. p.10

Guardo i soldati del Duemila scendere in fila ordinata e penso che c'è più distaza tra loro e la guerra di mio padre nel '42 sui monti della Croazia, di quanta non ve ne sia tra mio padre e la guerra di Annibale. La mulattiera su cui camminiamo è stata fatta negli anni trenta, in soli novanta giorni. Oggi nessun soldato ne sarebbe capace, per lo meno con i mezzi dell'epoca. Ma allora, penso, se la naia dei miei vecchi è più simile ai racconti di Polibio o di Senofonte che alla cronaca delle moderne guerre stellari,forse l'impresa non è impossibile. Quando ero ragazzo li ho visti, gli alpini. Erano una mandria in cammino. Stessi animali da soma di duemila anni fa, stesse bestemmie, stessa fatica, stesse facce da contadini. Ora capisco: il mondo che cerco non è scomparso dal millenni, ma da appena trent'anni. p.16

Ma intanto il Grande Africano riappare a Venaus, accanto al presidio contro l'Alta velocità ferroviaria, con uno striscione teso fra due alberi: SUI MONTI DOVE PASSO' ANNIBALE IL TAV NON PASSERA'. p.17

"Chissà quanto peseranno le ceneri di Annibale, " dice un ironico refrain coniato dai Romani a guerra finita. La domanda era costruita apposta per ricevere in risposta un'unica parola "Niente". Si voleva estorcere la conferma che il babau era diventato un nulla, era sparito dalla Storia. Ma i Romani non avevano fatto ci conti col mito, la leggenda che avrebbe invaso il Mediterraneo per secoli dopo la sua morte. p.29

In quota ti catturano intuizioni improvvise, non so se per l'aria fina o la gran vista. p.55

Siamo su quella che gli storici chiamano la Linea delle battaglie: dove si susseguono Lepanto, Azio, Canne, Mostar, Sarajevo, Vienna. Da questo orlo del Tavoliere fino ala Danubio corre la frontiera che nel cuore d'Europa separa Oriente e Occidente. p.117


La copertina



mercoledì 8 aprile 2009

Lamento di Portnoy

Philip Roth, Lamento di Portnoy (Portnoy's Complaint, 1967, 1968, 1969), "ET Scrittori", 715, Einaudi, 2000, traduzione dall'inglese di Roberto C. Sonaglia, 236 pagine.

[coming soon...]



sabato 4 aprile 2009

Una famiglia turca




L'Accademia militare di Kuleli di Istanbul

Irfan Orga, Una famiglia turca (Portrait of a Turkish Family, 1950), "Passigli Narrativa", Pasiigli, Bagno a Ripoli, 2007, traduzione dall'inglese di Luca Merlini, postfazione di Ateş Orga, 363 pagine.

Con la fine della guerra l'Impero Ottomano cessò di esistere. In disposizione del Trattato di Sèvres il suo territorio fu spartito tra le potenze vincitrici e solo con la vittoriosa conclusione della guerra turco-greca e la proclamazione della Repubblica ad opera di Mustafà Kemal Pascià, Ataturk, eroe della Battaglia di Gallipoli, la Turchia riuscì a riconquistare una piccola parte del suo antico Impero.
La disfatta turca nella prima guerra mondiale segnò anche, per moltissime persone, la fine di un epoca e di un modo di vivere.
L'autobiografia di Irfan Orga fa rivivere la caduta di una famiglia benestante di Istanbul, dal 1913 al 1940, dall'agiatezza raffinata dell'epoca del sultanato fino al benessere faticosamente ritrovato dei militari nella Repubblica di Ataturk.
Le vicende famigliari sono saldamente intrecciate con la Storia turca e, per buona parte della narrazione, con la vita quotidiana ad Istanbul.

Durante la mia recente visita ad Istanbul mi ero stupito di come il mito di Ataturk fosse ancora vivo. Leggendo questo libro credo di averne capito, almeno in parte, i motivi.

Prima di raggiungere la stanza nella quale ci saremmo lavati dovemmo attraversare un canaletto nell'acqua sporca scorreva verso le fogne. Non potemmo tuttavia attraversarlo finché tutti non avemmo sputato solennemente tre volte nell'acqua sporca dicendo Destur bismillah per placare gli spiriti maligni che si annidano sempre nei posti sporchi. Nella vecchia Turchia si doveva essere sempre essere cortesi con gli spiriti maligni. Se uno non diceva Destur Bismillah, che significa «In nome di Dio, vattene», gli spiriti maligni delle fogne si sarebbero molto verosimilmente sentiti insultati dalla mancanza di rispetto dimostrata verso di loro, e avrebbero potuto dare a qualcuno uno spintone che lo avrebbe steso faccia in giù nel canale di scolo, o avrebbero potuto causare una emiparesi temporanea. Quindi con loro non scherzavamo. Eravamo sempre molto rispettosi. p.28

Finita la cena lasciammo la sala abbandonando gli avanzi sul tavolo, cosa che sembrò immediatamente un po' volgare, come sono sempre i tavoli da pranzo dopo che la cena è finita. p. 113

MORTE.
Questa parola, assieme al pianto delle donne, sembrava riempire il mondo. In tutta la strada cominciavano ad arrivare notizie di figlie, fratelli, padri rimasti uccisi al fronte. Non c'erano più animate discussioni con i venditori ambulanti. Le donne compravano silenziosamente quello che si potevano permettere, i ragazzi partivano per raggiungere i loro padri in guerra e la strada rimase abbandonata ai bambini, ai cani, e ai gatti sempre affamati. p. 149

«Ricordati sempre! Quando sei disperato, non farlo mai sapere a nessuno. Mettiti i vestiti migliori e stampati in faccia l'orgoglio, e a questo mondo potrai avere tutto ciò che vuoi». p.185

Ataturk e il suo governo decisero che religione e affari pubblici dovessero essere separati, e nella nuova Costituzione è scritto:
«La lingua della Repubblica Turca è il turco e la sua capitale è Ankara».
La precedente leggeva:
«La religione della Turchia è l'Islam, la lingua è il turco e la capitale Ankara».
Il cambiamento fu molto maggiore di quanto possa apparire a occhi europei. p.253

In copertina Fausto Zonaro, Dolmabahçe