sabato 28 febbraio 2009

Celtika. Il Codice di Merlino


Johannes Hevelius, La Costellazione della Nave Argo
Robert Holdstock, Celtika. Il Codice di Merlino (Celtika: Book One of the Merlin Codex, 2001), "Nuova Narrativa Newton", 89, Newton Compton, Roma, 2007, traduzione di Tino Lamberti, 350 pagine.

La narrativa Fantasy, come genere letterario, è ancora molto lontana dal riconoscimento di critica, oggi, tributato alla Fantascienza.
Nonostante, infatti, da qualche anno, questo genere sia al centro di una grossa operazione culturale (condotta in primo luogo dall'industria cinematografica) non riesce a scrollarsi di dosso la vocazione all'intrattenimento che gli rimane tenacemente appiccicata addosso.
Se è vero, infatti, che sull'onda del successo si è iniziato a "consacrare" gli autori classici come Tolkien o Lewis e che , anche a livello letterario, il Fantasy conosce uno dei massimi momenti di successo commerciale (basti da solo il caso di Harry Potter) il genere fatica a trovare uno spazio credibile all'interno della narrativa contemporanea.
Rispetto alla Fantascienza, al Fantasy sono probabilmente mancati autori come Dick, Vonnegut, Ballard (per non parlare della Lessing) in grado di rinverdire gli ormai logori stereotipi di genere e attualizzarne le tematiche.
Rende quindi poco fiduciosi sul futuro il fatto che uno dei migliori autori di Fantasy come Holdstock, che con la saga dei Mitago aveva iniziato a rivoluzionare completamente il genere, torni sui suoi passi con questo primo episodio del ciclo di Merlino le cui premesse, al di là delle sue innegabili doti narrative, fanno presagire un inutile collage di miti banalizzati e miscelati al solo scopo di produrre qualcosa di appetibile dal punto di vista commerciale.
Sarà che personalmente non amo molto la commistione tra le mitologie di popoli differenti (a meno che non sia quella di American Gods di Gaiman), che la moda del celtismo in Italia è inevitabilmente associato ai delirii padani, che con i soggetti basati sul ciclo arturiano e su Merlino si potrebbe piastrellare Camelot o per la passione con cui ho letto il ciclo dei Mitago; sarà forse per l'insieme di tutti questi motivi che la lettura del primo libro della trilogia di Merlino è stata una cocente delusione.

Per dare un piccolo assaggio della trama, Belloveso, il fondatore mitico di Milano avrebbe ospitato i due figli di Medea e Giasone, per conto della madre che, per nasconderli a Giasone, li avrebbe fatti viaggiare nel tempo...

giovedì 26 febbraio 2009

L'erba che non muore mai




Un gruppo di contadini curdi raccoglie il cotone a Bozkuyu, nella provincia di Urfa, Turchia, 2008 [foto di Anne Holmes da Photoshelter].

Yashar Kemal, L'erba che non muore mai (Ölmez Otu, 1968), Giovanni Tranchida Editore, Milano, 1999, traduzione di Roberta Denaro, 418 pagine.


Terzo e conclusivo capitolo della Trilogia della Montagna, questo romanzo narra le vicende degli abitanti di Yalak nella loro discesa annuale dalle montagne del Tauro verso la ricca pianura della Çukurova (l'antica Cilicia, in Turchia) per la raccolta del cotone.
Alcuni dei personaggi della Saga, il santo Tashbash, il capo del villaggio Sefer, Memidik e il vecchio Koca Halil, le cui gesta sono state narrate nei romanzi precedenti, incontrano, alla fine, il loro destino.
Il tempo della narrazione è quello sospeso del Mito, solo interrotto ogni tanto dal rumore di motori ronzanti e dai fari dei camion o dai jet americani in decollo dalla base di Incirlik, che volano quasi sfiorando terra...

Yashar Kemal è una scoperta inaspettata e piene di sorprese. La sua è una anti-epica in cui si avverte il respiro della Storia, l'avventura dell'Uomo come nei cantar di Scorza, che gioca con la scrittura come fa Saramago e che fa sorridere come i raconti di Hrabal.


Rapido, Memidik estrasse dal fodero il coltello dalla lama sottile come una foglia di salice, che al chiaro di luna mandò un riflesso di lampo azzurrino e disegnò un ampio cerchio nell'aria. Tutto il suo corpo si tese, fino al midollo, come un falco nelle rocce pronto a gettarsi sulla preda. Fece un balzo, poi rimase di nuovo così, teso, con le gambe irrigidite e tremanti. Aveva il corpo trasformato dalla testa ai piedi in una pesante barra di piombo. Immobile allo stesso modo. p. 9

Dopo essersi arrampicato su delle ripide rocce giunse alla sorgente. Si sedette, i fianchi appoggiati all'alberello. Chiuse gli occhi. Con le sue terre aride, blu, rosse e verdi, con le sue rocce appuntite, i suoi fiori, i cardi, i suoi uccelli e le sue bianche nuvole, l'intero universo girava intorno a lui. Nella completa assenza di suoni, l'universo risuonava. p.37

Si , la Çukurova non è un posto come gli altri. È un piano infinito, senza confini. Fatto di paludi e boscaglie, di corsi d'acqua e d'immensi mari. Le zanzare vi arrivano a nubi...
La Çukurova è biancora infinito. È colonne di polvere che salgono fino al cielo, e si spostano come immensi giganti, e volano, come giganti dai mille colori. La Çukurova è calore giallo, fumo e polvere. Una terra maledetta, senza piante o alberi, riarsa. Ed è malaria, malattie. Le ossa che dolgono, il sudore che cola. È automobili, e trattori, trebbiatrici, è una creatura incapace di parlare, che solo a tratti grida, una creatura incapace di parlare, che solo a tratti grida, una creatura non umana dalle mani di cotone, la pelle di seta, i capelli di seta filata. E ancora, è cappelli di paglia, vesti bianche e occhi neri. No, non è un posto come gli altri, un posto tranquillo... La Çukurova è un drago verde. Arriva dal cielo sibilando, sotto forma di nuvola. Le genti del Tauro non trovano pace finché non se ne vanno dalla Çukurova. Vivono nella paura. Non pensano che a terminare il loro lavoro e a tornare ai loro monti, alla steppa, un giorno prima. Già due giorni dopo essere arrivati nella piana, si consumano il cuore di nostalgia per le montagne o la steppa da dove vengono. p.44

Un morto non somiglia più a chi era da vivo. Cambia. Non gli somiglia per niente. [...] I morti diventano come tutti i morti. I morti sono simili ai morti... p.74

«La vita dei vecchi è più fragile di un filo di cotone, più sottile di un raggio di luce.» p.192

Pensava ai campi di cotone. La piana della Çukurova le passava sotto gli ochhi. dolce e magica. Tutta un'altra cosa. Le rocce violette dell'Anavarza, e sulle rocce i ruderi che si indovinavano appena. Le acque del Ceyhan, verdi, ferme, mosse solo da un leggero tremolio, e il Mediterraneo azzurro e risonante, coperto di schiuma bianca, con le sue onde folli di rabbia. Il sole scintillante, il sole... La terra della Çukurova che diventa bianchissima sotto il sole... I trattori unti d'olio, i camion, le strade polverose che si stendono sulla piana come una tela di ragno, le colonne di polvere, fatte di luce di tutti i colori, che corrono senza posa verso il Tauro, sempre più grandi e alte... E i campi e le strade affollati di braccianti... I braccianti che si pressano nella piana della Çukurova, simili a formiche dalle enormi mani, affamati, miserabili, la tristezza negli occhi... p.195

Le vecchie aquile muoiono nel più remoto dei cieli, dove sono le stelle. Ma il figlio dell'uomo, quando è vecchio, muore strisciando come un verme, figliolo , strisciando a terra. p.219

La notte era luminosa, scintillante. A ogni passo restava dietro un lago di luce. Tutto era immerso nella luce. Piovve, ma era pioggia di luce che non bagna. Una luce ha spaccato la notte, l'ha divisa nel mezzo. Come una lama ha tagliato in due i monti e la notte. p.320

Meryemce ruppe una cipolla col pugno della mano. Bisogna fare così, infatti quando la cipolla viene tagliata col coltello diventa immangiabile, mentre schiacciata col pugno le fa perdere l'amaro. p.324

Se ci si mette al bordo di un buon campo di cotone e lo si guarda, si vedono solo foglie verdi. Tra il verde delle foglie spunta il candore del cotone, è un'esplosione. In un campo come quello ogni pianta arriva alla cintola. E le caspule che esplodono tra i riami verdi sono grandi quanto un pugno. Se il campo non è di buona qualità, o è nella norma, dalle piante di cotone le foglie sono già cadute a terra, e rimane sulle piante solo il cotone. Il campo allora diventa una distesa innevata, immacolata. E senza fiori. Un buon campo di cotone, fertile, somiglia a un grande giardino fiorito, è coperto di migliaia di fiori multicolori. p.391

Nel cielo una pioggia continua di stelle filanti. E sotto le stelle, si diffondeva per la steppa un canto commovente, il canto notturno di una bella voce d'uomo.
Noi stiamo seduti su una terra di primavera, vecchia di mille anni, dice il canto. Ci siamo amati di un amore vecchio mille anni, vecchio quanto la terra. Uniti nell'amore, uniti nella morte, siamo seduti su una terra di primavera vecchia centomila anni. Ci siamo amati. Abbiamo mescolato il nostro sangue vermiglio, diceva il canto. E continuava, per poi farsi dempre più lontano... p.403

domenica 22 febbraio 2009

Il casellante

S'arricordò che alle scole limentari 'na vota il maestro aviva contato che l'alloro, l'addrauro, in origini era stata 'na beddra picciotta che po' si era cangiata in pianta. Se nell'antichità lo potivano fari, pirchì ora l'omo non ne era cchiù capace?


Abraham Bloemart, Niobe beweent haar kinderen, olio su tela, 1591, Statens Museum for Kunst, Copenaghen (particolare)

Andrea Camilleri, Il casellante, "La memoria", 750, Sellerio, Palermo, 2008, 143 pagine.

Una donna, Minica, moglie del casellante di una linea secondaria della Sicilia, perde il figlio di cui è incinta in seguito alle violenze seguite a uno stupro. La brutalità della violenza, oltre a farle perdere il figlio a lungo cercato, la lascia sterile.
Una volta appresa la notizia, di ritorno dall'ospedale, la donna decide di trasformarsi in albero, un nespolo, e, aiutata dal marito che la accudisce amoroso nonostante i segni dello squilibrio, vive come un albero fuori dalla casa.
Resasi infine conto dell'impossibilità dell trasformazione, si rifugia, sconfitta, in una grotta in fondo al pozzo con l'intenzione di lasciarsi morire fino a quando la Fortuna porrà fine ai suoi propositi.
Secondo le parole di Camilleri, Il casellante, rappresenta il secondo episodio di una "Trilogia delle metamorfosi", iniziata con Muruzza Musumeci. Il tentativo di trasformazione di Minica rimanda immediatamente al mito di Dafne ma ricorda più strettamente, per temi e drammaticità, quello di Niobe, trasformatasi in marmo per il dolore provocato dalla morte dei suoi dieci figli.
Mentre in Muruzza Musumeci, l'elemento soprannaturale, è alla base della narrazione, in questo romanzo la realtà, saldamente governata dalla Fortuna, è l'unica dimensione della narrazione e, forse, è proprio per questo che la metamorfosi non si realizza e, dopo il dolore, la vita dei protagonisti sembra trovare una parvenza di normalizzazione.
Nel tratteggiare la storia di Minica e Nino, Camilleri aggiunge un altro piccolo pezzo alla mappa di Vigata che sta cartografando nei suoi lavori via via sempre più precisamente.
Alla Vigata della seconda guerra mondiale appartiene anche la figura di don Simone Tallarita "omo di rispetto", mafioso, che nel romanzo svolge, per il protagonista, un vero e proprio agente della Fortuna e che, a mia memoria, è l'unico esempio di mafioso totalmente "positivo" (almeno per gli effetti delle sue azioni nello sviluppo della storia) che compare negli scritti di Camilleri (a patto di dimenticarsi, naturalmente, delle modalità in cui si concretizzano gli aiuti... ).

venerdì 20 febbraio 2009

Gotico rurale




La crociata dei bambini, G. Doré (particolare)


Eraldo Baldini, Gotico rurale, "Frassinelli Paperback. Narrativa", 23, Frassinelli, Roma, 2004, Postfazione di Francesco Guccini, 171 pagine.

Il «mondo rurale», la «civiltà contadina», è sempre stato come sospeso fra cristianesimo e paganesimo (non a caso da pagus, «villaggio lontano dalla città»), in bilico tra fede e superstizione. Così, accanto alle figure canoniche religiose sopravvivevano altre figure meno benevole e protettive, con nomi diversi ma con la stessa essenza, e potevano esserci il segnài, l'anima del morto che non vuole tornare nella tomba, lo Spirito del Grano, il Gufo con la lanterna negli artigli, la Vecchia del Pozzo, la Borda, il Gorgo Nero, figure alla quali forse non credevano realmente se la natura si mostrava benevola e temperata, ma possibili di vera esistenza quando il cielo si incupiva, il freddo regnava, le nebbie apparivano improvvisamente a cancellare e trasformare tutto in un mondo nemico e misterioso. (Dalla postfazione al libro di Francesco Guccini, p.170)

Raccolta di racconti tra cui compare anche "Re del Carnevale", con cui Baldini vinse il Myfest del 1991 e si fece conoscere al pubblico per la prima volta. C'è poco da aggiungere alle parole di Guccini, l'autore, forte del bagaglio di studi etnografici e di antropologia culturale, attinge alla "mitologia rurale" della Pianura padana per comporre brevi racconti gotici, piccole macchina da guerra, perfettamente riusciti.
A voler cercare a tutti i costi qualche difetto, cosa, quasi mai necessaria, la cesura dei finali talvolta è molto brusca, troppo; l'editor di Carver probabilmente sarebbe stato d'accordo ma, personalmente, credo che questa scelta, che trasforma, in qualche caso, i racconti in sceneggiature di fumetti, non fosse sempre necessaria.

giovedì 19 febbraio 2009

L'incredibile viaggio di Pomponio Flato


Antonio Ciseri (1821-1891), Ecce Homo, olio su tela, Galleria d'Arte Moderna, Palazzo Pitti, Firenze.

Eduardo Mendoza, L'incredibile viaggio di Pomponio Flato (El asombroso viaje de Pomponio Flato, 2008), "Giunti Blu", Giunti, Firenze, 2008, traduzione di Francesca Lazzarato, 180 pagine.

Qui il video del discorso di Mendoza al Premio dei giovani lettori di Mandarache, Cartagena, edizione 2009 in cui il romanzo è arrivato tra i finalisti. Si può anche vedere una specie di book trailer realizzato dai circoli della lettura della biblioteca municipale di Godella.
In occasione della presentazione milanese del libro, Eva Cantarella ha scritto sul Corriere una recensione che contiene anche un riassunto dell'opera.


«Guarda, Gesù, tutti i bambini della tua età credono che i loro genitori siano diversi dagli altri. Ma non è così. Quando crescerai scoprirari che tuo padre non ha niente di speciale.» p. 26

«Dimmi, rabboni, perché Lazzaro ha detto che gli ultimi saranno i primi?»
«Perché è un cretino [...]» p.61

Quando gli riferii l'accaduto, [Giuseppe] si dispiacque per il danno arrecato al tribuno e promise di implorare Yahvè per il suo pronto e totale ristabilimento.
«Uno strano atteggiamento nei confronti di chi ti ha condannato a morte», escalami.
Giuseppe si strinse nelle spalle e disse:
«Non dobbiamo restituire male per male, ma il contrario; perdonare ai nostri nemici e amarli come Dio ci ama».
«Per Giove, non so chi ti abbia messo in testa quest'idea, ma, da dovunque venga è una follia. Se non distinguiamo il nemico dall'amico e il bene dal male, che fine faranno virtù e giustizia?» p.84

«É la tua prima visita in Israele, Pomponio?», chiese cortesemente Zaccaria per rompere il silenzio.
«In efetti», risposi, «e mi sembra un posto davvero piacevole».
«Piacevole? No. É la Terra Promessa, amico gentile. La Terra Promessa! Il male è che nessuno sa, in che cosa consista la promessa né quando si compirà» p.116

«Questo non posso dirtelo», sospirò Giuseppe. «Dovrai aver fede».
«No», replicai, «qualcunque cosa tranne la fede. La fede non rientra nella mia metodologia. La credulità si. L'errore anche, perché, essendo inevitabile, se accettato rappresenta una via sicura verso la verità e il presupposto di qualunque riflessione. Ma la fede no. Su questo punto siamo inconciliabili. E neppure posso rispettare la tua, anche se eri disposto sacrificarle la tua stessa vita. Ma non temere, non insisterò. Inoltre si è fatto tardi, e devo andare». p. 165

... ricordo a volte i fatti di cui sono stato testimone in Galilea e mi domando se sono davvero accaduti o se furono frutto della fantasia morbosa prodotta dalla mia infermità.
Sia come sia, in definitiva poco importa, perché solo di questo sono certo: tra qualche anno darà come se niente fosse esistito, e nessuno si ricorderà di Gesù, Maria e Giuseppe, come nessuno si ricorderà di me, né di te Fabio, perché tutto decade, scompare e si perde nell'oblio, tranne la grandezza immarcescibile di Roma. p.175

mercoledì 18 febbraio 2009

Città della pianura

Fu così che Dio si ricordò d'Abraamo, quand'egli distrusse le città della pianura e fece scampare Lot al disastro, mentre distruggeva le città dove Lot aveva abitato (Genesi 19:29)


Dorothea Lange, Crossing the international bridge between Juarez, Mexico and El Paso, Texas, 1937, Farm Security Administration - Office of War Information Photograph Collection, Library of Congress.


Cormac McCarthy, Città della pianura (Cities of the Plain, 1998), Trilogia della Frontiera, "Super ET", Einaudi, Torino, 2008, Prefazione di Alessandro Baricco, Traduzione di Raoul Montanari, 315 pagine (718-1033).

I destini di Billy Parham e John Grady si intrecciano nell'episodio conclusivo della trilogia. Nel 1952, i due ragazzi si incontrano e lavorano insieme, nel Fours Ranch di Mac McGovern a Alamogordo, New Mexico, vicino alle città gemelle di El Paso e Ciudad Juàrez. Dietro all'apparentemente normalità della vita da cow boy, che un tempo entrambi bramavano come vita ideale, inizia il finale percorso divergente che porterà John Grady Cole, ventenne, a votarsi all'autodistruzione nel tentativo eroico ma fallimentare di salvare tutte le creature bisognose di aiuto che incontra sul suo cammino (la cucciolata di cani, Magdalena, la prostituta epilettica ...) mentre il personaggio di Billy Parham, ventottenne, viene umanizzato da McCarthy che, senza farlo rinunciare alla sua umanità, lo fa invecchiare come, quasi incolpevole e quasi impotente, testimone delle ingiustizie del mondo.

La città di Almagordo, dove si svolge gran parte della narrazione è stata protagonista, nel 2001, di falò pubblici di libri (tra gli altri, Harry Potter, Tolkien e Shakespeare...) ad opera di integralisti cristiani...

Tanto non c'è niente che possa bruciare là. Mi ricordo ancora di quando c'era il rischio che prendesse fuoco la prateria, in questo paese.
Non volevo dire che ho già visto tutto, disse John Grady.
Lo so che non volevi dire questo.
Volevo solo dire che ho visto cose che non avrei voluto vedere così presto.
Lo so. Il mondo ti dà delle dure lezioni.
Qul è la più dura?
Non saprei. Forse è semplicemente che quando le cose sono finite sono finite e basta. E non torneranno più.
Sissignore. p. 854

Alzati e piscia, disse. Il mondo sta andando a fuoco.
E tu lascialo bruciare, il figlio di puttana. p. 907

Gli uomini parlano di destino cieco, di qualcosa che agisce senza schemi o fini. Ma che sorta di destino è mai questo? Ogni atto compiuto in questo mondo è irreversibile, ed è preceduto da un altro, e da un altro ancora. Tutti insieme formano una rete immensa nello spazio e infinita nel tempo. Gli uomini immaginano di poter scegliere fra le possibilità che vedono davanti a sé. ma noi siamo liberi di agire solo in base a ciò che ci è stato dato. la libertà di scelta si smarrisce nel labirinto delle generazioni, e in questo labirinto ogni atto è in sé un asservimento, poiché sgombra il campo da tutte le alternative e ci lega sempre più strettamente alle costrizioni di cui è fatta la nostra vita. p. 929

Di sicuro no so cosa diavolo sia il Messico. Credo che sia una cosa che uno immagina nella testa. Il Messico. Ne ho fatta di strada in sella a un cavallo, laggiù. La prima ranchera che senti cantare, capisci tutto quel paese. Quando ne hai sentite cantare cento, scopri che non sai un accidente. E che non saprai mai, un accidente. Io ho chiuso il conto con quel paese, un bel po' di tempo fa. p. 954

Io sarò il bimbo, perché tu mi abbracci,
E tu me, negli anni in cui sarò vecchio.
Nel mondo cresce il gelo,
Qualcosa infuria in cielo.
La storia è ormai finita,
Volta la pagina fra le tue dita.

martedì 17 febbraio 2009

Oltre il confine





Cormac McCarthy, Oltre il confine (The Crossing, 1994), Trilogia della Frontiera, "Super ET", Einaudi, Torino, 2008, Prefazione di Alessandro Baricco, Traduzione di Rossella Bernascone e Andrea Carosso, 420 pagine (297-717)

[coming soon...]

giovedì 12 febbraio 2009

Cavalli selvaggi






Cormac McCarthy, Cavalli selvaggi (All The Pretty Horses, 1992), Trilogia della Frontiera, "Super ET", Einaudi, Torino, 2008, Prefazione di Alessandro Baricco, Traduzione di Igor Legati, 199 pagine (pp5-294)

[cpming soon...]

lunedì 9 febbraio 2009

L'inferno comincia nel giardino





Jonatham Lethem, L'inferno comincia nel giardino (The Wall of the Sky, The Wall of the Eye, 1996), "Sotterranei", 37, minimum fax, Roma, 2001, traduzione di Martina Testa, 263 pagine.

Prima raccolta di racconti pubblicata da Lethem. Si tratta di sette storie abbastanza disomogenee che, in alcuni casi, suggeriscono l'idea che, più che racconti, in origine potessero essere nati come spunti per romanzi. Tra quelli meno riusciti, Per sempre, disse il papero (Forever, Said the Duck) e Cinque Scopate (Five Fucks).
L'uomo felice (The Happy Man) è il racconto che da il titolo alla raccolta nell'edizione italiana; l'idea è che, in un futuro imprecisato, gli uomini (curiosamente mi sembra si parli solo di maschi) possano resuscitare previo pagamento di una cauzione ma siano costretti a vivere alcuni momenti della loro nuova esistenza in una sorta di inferno personale, costruito su misura e basato sulle loro paure o traumi.
In Duri come la pietra (The Hardened Criminals), di per se non indimenticabile, Lethem ha il merito di aver creato l'immagine di un carcere del futuro costruito con i resti dei condannati ridotti a mattoni ma ancora capaci (almeno per un certo tempo) di parlare e interagire con i nuovi detenuti. In questo, come nel racconto Chiaro e il Sofferente (Light and the Sufferer) si possono ritrovare delle atmosfere che saranno proprie di La fortezza della solitudine. Vanilla Dunk è un racconto sul basket del futuro in cui l'abilità dei giocatori è data da speciali tute in grado di riprodurre i movimenti dei grandi cestisti del passato.
I dormiglioni (Sleepy People) è forse il racconto più incompiuto della raccolta.

Le piccole memorie

Le piccole memorie. Si, le memorie piccole di quando ero piccolo, semplicemente.


Hieronymus Bosch, Trittico delle Tentazioni di Sant'Antonio, 1505-1506 ?, olio su tavola, Museo Nazionale di Arte Antica, Lisbona [particolare dello sportello sinistro]

José Saramago, Le piccole memorie (As pequenas memòrias, 2006), "ET Scrittori", 1528, Einaudi, Torino, 2007, Traduzione di Rita Desti, 120 pagine.

Saramago torna nei luoghi della sua infanzia a Azinhaga, piccolo paese del Ribatejo dove è nato nel 1922 e a Lisbona, nelle numerose case in cui la sua famiglia ha vissuto nei primi anni della sua vita.
La scrittura è come al solito nitida, lucida, i luoghi prendono vita e si animano davanti agli occhi del lettore che rivive i giochi di bambino, le letture, i giochi, le spedizioni nella campagna, i pomeriggi al cinema e gli incontri per le strade di Lisbona.
In un periodo come questo in cui la parola "Crisi" è sulla bocca di tutti e minaccia il calcio come discorso principe nei bar questo piccolo libro prezioso può aiutare a relativizzare la situazione.

Fu in questi luoghi che venni al mondo, fu da qui, quando ancora non avevo due anni, che i miei genitori, migranti spinti dalla necessità, mi portarono a Lisbona, ad altri modi di sentire, pensare e vivere, come se nascere dove io sono nato fosse stata la consegeuenza di un equivoco del caso, di una casuale distrazione del destino che ancora fosse in loro potere correggere. Non fu così. Senza che nessuno se ne fosse accorto, il bambino aveva già prolungato viticci e radici, la fragile semente che ero io allora aveva avuto il tempo di calpestare il suolo argilloso con i suoi piedi minuscoli e malfermi, per riceverne, indelibilmente, il marchio originale della terra, quel fondo instabile dell'immenso oceano dell'aria, quel fango ora secco, ora umido, composto di residui vegetali e animali, di detriti di tutto e tutti, di rocce corrose, polverizzate, di molteplici e caleidoscopiche sostanze che hanno attraversato la vita e alla vita hanno fatto ritorno proprio come vi tornano i soli e le lune, le piene e le siccità, i freddi e i caldi, i venti e le bonacce, i dolori e le gioie, gli esseri e il nulla. Soltanto io sapevo, senza avere coscienza di saperlo, che negli illegibili in-folio del destino e nei ciechi meandri del caso era scritto che sarei dovuto tornare ancora ad Azinhaga per finire di nascere. p.4

Il bambino che sono stato non vide il paesaggio come sarebbe stato tentato di immaginarlo, dalla sua altezza d'uomo, l'adulto che è diventato. Il bambino, nel tempo in cui lo fu, stava semplicemente nel paesaggio, ne faceva parte, non lo interrogava, non diceva né pensava, con queste o con altre parole: «Che bel paesaggio, che magnifico panorama, che stupendo punto di osservazione!» p.6

E se è vero che alcune delle fantasmagorie boschiane sembrano soppiantare di gran lunga le possibilità di qualsiasi comparazione tra il santo e il bambino, sarà solo perché non ci ricordiamo più o non volgiamo neanche ricordarci di ciò che allora passava nelle nostre teste. Quel pesce volante che nel quadro di Bosch porta il sant'uomo nell'aria e nel vento non si distingue poi così tanto dal nostro stesso corpo che vola, come ha volato il mio tante volte nello spazio dei giardini tra i palazzi di Rua Carrilho Videira, ora sfiorando il limoni e i nespoli, ora guadagnando altezza con un semplice battito delle braccia e aleggiando sopra i tetti. p.25

Non credo esista al mondo un silenzio più profondo del silenzio dell'acqua. Lo senti allora e non l'ho mai più dimenticato. p.66

Per dare un'idea chiara della situazione, basterà dire che per anni, con assoluta regolarità stagionale, mia madre andava a portare le coperte al monte di pietà quando l'inverno terminava, per riscattarle solo, risparmiando centesimo su centesimo per poter pagare gli interessi tutti i mesi e il recupero finale, quando i primi freddi cominciavano a farsi sentire. p.76

José Dinis morì giovane. Gli anni d'oro dell'infanzia erano finiti, ognuno di noi dovette andare per la propria strada e un giorno, passato del tempo, mentre mi trovavo ad Azinhaga, domandai a zia Maria Elvira «Che fine ha fatto José Dinis?» E lei, senza aggiungere altro, rispose: «José Dinis è morto». Eravamo così, feriti dentro, ma duri fuori. Le cose sono come sono, ora si nasce, poi si vive, alla fine si muore, non vale la pena girarci troppo intorno, José Dinis venne e passò, si piansero alcune lacrime al momento, ma certo è che non si può passare la vita a piangere i morti. Voglio credere che oggi nessuno avrebbe pensato più a José Dinis se queste pagine non fossero state scritte. p.118

venerdì 6 febbraio 2009

Estasi culinarie




Juan Sànchez Cotàn. Bodegòn de caza, hortalizas y fruta, 1602. Madrid, Museo Nazionale del Prado


Muriel Barbery, Estasi culinarie (Une gourmandise, 2000), "Dal mondo. Francia", e/o, Roma, 2008, traduzione di Emanuelle Caillat e Cinzia Poli, 142 pagine (p).

Prima prova letteraria della Barbery, ambientata nel palazzo di rue Grenelle, consacrato poi dal successivo L'eleganza del Riccio.
Un famoso critico gastronomico, in punto di morte, rievoca tutti i sapori della sua vita alla ricerca appassionata di quello mancante, che non riesce a ricordare e che vorrebbe assaporare un ultima volta.
L'uomo, incapace di amare ma in grado di distinguere e descrivere con maestria ogni singolo gusto, cerca, come Auguste Gusteau in Ratatouille, il cibo con cui congedarsi dal mondo.
Questa ricerca non lo porterà però a sciogliersi nel gusto della verdura stufata ma si risolverà in un'ironica e beffarda corsa al supermercato più vicino...

giovedì 5 febbraio 2009

Memorie di una sopravvissuta



Copertina della seconda edizione inglese della Octagon Press, 1985

Doris Lessing, Memorie di una sopravvissuta (The Memoirs of a Survivor, 1974), "Collezione Vintage", Fanucci, Roma, 2003, traduzione di Cristiana Mennella, postfazione di Oriana Palusci, 251 pagine.

All'inizio degli anni Settanta, dopo aver scritto opere come L'erba canta, il Taccuino d'oro e la serie Children of Violence s'inizio a parlare di Doris Lessing come possibile candidata al premio Nobel.
Le sue fortune iniziarono però a calare in seguito alla pubblicazione di libri di "fantascienza", dei quali Memorie di una sopravvissuta è uno dei primi esempi, che venivano giudicati di valore inferiore ai precedenti.
Questi giudizi, che non le impedirono di vincere il Nobel nel 2007, appaiono, leggendo la produzione incriminata, del tutto pretestuosi e fuori luogo.
La fantascienza della Lessing (che non ha mai avuto, a questo proposito atteggiamenti snobbistici nè alcun imbarazzo accademico) è paragonabile a quella del Signore delle mosche o a 1984; si tratta di uno spostamento in avanti del tempo, di un'astrazione della realtà che la circonda, della ricerca di luoghi simbolici e paradigmatici. L'ambientazione fantascientifica esplicitata negli universi distopici che ha creato nel corso degli anni, sono strettamente funzionali all'esplorazione delle capacità del genere umano di affrontare quella vasta gamma di situazioni sociali da lui stesso create e del modo in cui esse si manifestano e ripercuotono nell'intimo delle persone.
Memorie di una sopravvissuta racconta la vita di due donne che si trovano a vivere insieme (la più giovane affidata alla più anziana) il disgregamento della vita normale di una città in uno scenario post-catastofe le cui cause non vengono mai menzionate.
Legate da un vincolo profondo ma non esplicitato, le due donne affrontano gli eventi con personalità ed energie diverse e complementari. Parallelamente alla narrazione degli eventi, la donna anziana vive solitari momenti di esplorazione dello spazio interiore fantastico e "altro", da cui la ragazza proviene ma a cui non sembra interessata a tornare, che si palesa dalla smaterializzazione periodica della parete del salotto di casa.
Bellissima ed inquietante la cornice, l'ambientazione del romanzo che pur essendo solo lo sfondo della narrazione delinea situazioni che ricordano molto da vicino le sperimentazioni sociologiche di Ballard.

Nel 1981, dal romanzo è stato tratto un film per la regia di David Gladwell ed interpretato da Julie Christie e Nigel Hawthorne.


Ma forse sarà il caso di notare che a tutti - senza eccezione - capita di ripensare a un periodo della vita, a una serie di avvenimenti, e di torvarli assai più significativi di quanto non fossero all'epoca. E il discorso vale anche per quelli deprimenti quanto i rifiuti sparsi su un prato dopo una scampagnata. Ci scambieremo impressioni come desiderando o sperando nella conferma di un un dettaglio che quegli avvenimenti non avevano lasciato trapelare, che sembravano addirittura escluso a priori. La felicità? È una parola che ogni tanto ho preso e studiato - ma direi che non tiene, nella forma. E nel contenuto? E se avesse un intento? Comunque sia, rievocato in questo spirito, il passato sembra immerso in una sostanza estranea, avulsa dal modoin cui lo abbiamo vissuto. Possibile che la memoria sia fatta veramente di questo? Nostalgia? Macché. Non sto parlando certo del desiderio, del rimpianto - quella smania velenosa non c'entra. E nemmeno l'importanza che ognuno di noi vorrebbe attribuire al suo trascurabile passato: «Io c'ero, sai. Io l'ho visto.» p.10

Si, era fuori dal normale. Si, era tutto assurdo. Ma in fondo, avevo accettato l''assurdo'. Ci convivevo. Avevo sacrificato ogni aspettativa di normalità al mio mondo interiore, alla mia vita in quel luogo. Quanto al mondo pubblico, esterno, da un pezzo non offriva più niente di normale. p.25

Delle nostre abitudini, di ciò che avevamo dato per scontato solo dieci anni prima, non era rimasto niente, o ben poco, ma noi continuavamo a parlare e comportarci come se ancora ci identificassimo in quelle vecchie forme. p.25

Noi siamo la compagnia che ci scegliamo. p.65

Quando mai la calsse dirigente del nostro paese non ha vissuto sotto la campana di vetro della rispettabilità e della ricchezza, chiudendo gli occhi davanti a quanto succedeva fuori? Poteva esistere una reale differenza quando la 'classe dirigente' usava parole come giustizia, lealtà, equità, ordine o addirittura socialismo? - le ha usate, magari addirittura credendoci, se non altro per un periodo; ma mentre tutto andava in pezzi gli amministratori, come sempre, vivevano al riparo dal peggio, cercando di allontanarlo con i discorsi, gli auspici, le leggi - perché ammettere che stava succedendo equivaleva a riconoscere la propria inutilità, confessare che la maggiore sicurezza di cui godevano era un furto, non un compenso per i loro servigi... p.119

... il linguaggio dei poveri, spoglio, ridotto all'osso, ha sempre contenuto l'energia del risentimento (amagari inconsapevole, ma presente) alimentato dalla consapevolezza di capacità e provilegi appena fuori portata ... p.124

Un bambino può piangere come se tutta l'infelicità dell'universo fosse solo sua - quando una donna piange, il punto non è il dolore, no, ma l'accettazione definitiva di un torto. p.187

lunedì 2 febbraio 2009

La tigre bianca

Per la scrivania di:
Sua Eccellenza Wen Jiabao,
Ufficio del Primo Ministro,
Pechino,
Capitale della Cina, Nazione Amante della Libertà


Dalla scrivania di:
«La Tigre Bianca»
Un Uomo Pensante
E un imprenditore
Residente nel centro mondiale della tecnologia e dell'outsourcing
Electronica City Pahese I (accanto a Hosur Main Road) Banagalore, India



Aravind Adiga, La tigre bianca (The White Tiger, 2008), Einaudi, Torino, 2008, traduzione di Norman Gobetti, 232 pagine.

Balram Halwai alias MUNNA, alias Ashok Sarma nasce in una piccola città del Rajasthan, Laxmangarh, nelle Tenebre dell'India, caratterizzata dalla sottile linea luminosa della fogna che l'attraversa e sovrastata da un forte nero.
La famiglia, numerosa, è retta dalla nonna paterna; il membro più coccolato è la bufala d'acqua. Il padre, un autista di risciò, vorrebbe per il figlio un destino diverso dal suo. Balram frequenta la scuola, è un allievo brillante, ma è costretto ad abbandonare gli studi per i debiti contratti dalla famiglia dopo il matrimonio di una cugina. Il suo destino inizia a compiersi dopo la morte del padre per tubercolosi e il suo successivo impiego come autista di uno dei figli di un possidente di Laxmangarh appena tornato dall'America.
Una volta trasferitosi, a seguito del padrone, a New Delhi, Balram osserva il funzionamento della società indiana, assiste alla progressiva corruzione del suo padrone di cui arriva a progettare e realizzare l'omidicio. Con i soldi rubati fugge a Bangalore dove, grazie alle tecniche apprese e alla sua intraprendenza, diventa il proprietario di una agenzia di autisti.

Romanzo d'esordio di Aravind Adiga che distrugge l'immagine positiva dell'India dei call center e dell'outsourcing, del miracolo della economia basata sulle nuove tecnologie come, negli ultimi anni, viene veicolata dagli ambienti economici.
Il paese in cui si muove Balram è una gabbia insensata, la cui descrizione spazza via anche l'alone mistico tanto caro a noi occidentali.
L'ingiustizia è presentata nella sua forma più semplice e brutale senza ricorrere inutilmente ad immagini raccapriccianti ma utilizzando efficacemente allusioni e inframezzando alla narrazione episodi essenziali.
La forma è quella epistolare; un immaginario scambio epistolare tra il protagonista e il primo ministro della Cina in occasione di una visita ufficiale in India.
La storia è il racconto di un'eccezione, l'animale raro, la tigre bianca, che riesce ad evadere dal sistema della stia per polli che regola i rapporti sociali in India e diventare un macellaio ghignante.
La capacità di Adiga di descrivere la realtà dell'India moderna è sbalorditiva.

Il romanzo ha vinto l'edizione 2008 del Booker Prize. Qui, si può ascoltare il discorso di Aravind Adiga.

Su Scribd è disponibile per la lettura la versione inglese del romanzo.

Curiosamente, la maggior parte degli esemplari di Tigre Bianca conosciuti oggi si trovano confinati nei più importanti zoo del mondo.

In termini di istruzione formale forse sono un po' carente. Non ho mai finito la scuola, a dirla tutta. Che importa! Non ho mai letto molti libri, ma ho letto quelli che contano. Conosco a memoria le opere dei quattro maggiori poeti di tutti i tempi: Rumi, Iqbal, Mirza Ghalib e un quarto di cui non ricordo il nome. Rientro nella schiera degli imprenditori autodidatti.
E sono i migliori, mi creda.
Quando avrò finito la storia di come sono arrivato a Bangalore e sono diventato uno degli uomini d'affari di maggior successo della città (anche se probabilmente uno dei meno noti), saprà tutto quel che c'è da sapere di come l'imprenditoria nasce, viene coltivata e giunge a maturità in questo glorioso ventunesimo secolo dell'umanità.
O meglio, dell'umanità gialla e marrone.
Lei e me. p.6

Ė una antico e venerabile costume del popolo del mio paese cominciare le storie rivolgendo una preghiera a una Potenza Suprema.
Forse, Eccellenza, acnh'io dovrei cominciare baciando il culo a qualche dio.
Però il cuolo di quale dio? C'è l'imbarazzo della scelta.
Vede, i musulmani hanno un solo dio.
I cristiani hanno tre dei.
E noi indù ne abbiamo 36 000 000.
Per un totale di 36 000 004 culi divini fra cui scegliere.
Ora secondo alcune persone, e non solo comunisti come lei ma uomini pensanti di tutti i partiti politici, non molti di questi dei esistono davvero. Secondo alcuni non ne esiste nessuno. Soltanto noialtri e l'oceano di tenebre che ci circonda. Io non sono né un filofofo né un poeta, come posso consocere la verità? Ė vero che tutti questi dei non sembrano darsi granché da fare - più o meno come i nostri politici - eppure anno dopo anno continuano a vincere le elezioni per i loro troni celesti. Il che non significa che io non li rispetti, signor primo ministro! Non permetta a quest'idea blasfema di far breccia nella sua testa gialla. Nei paesi come il mio conviene tenere il piede in due staffe: l'imprenditore indiano dev'essere allo stesso tempo onesto e corrotto, cinico e devoto, scaltro e sincero.
Perciò chiudo gli occhi, coniugo le mani in un reverente namaste e prego gli dei di far risplendere la luce sulla mia storia tenebrosa.
Abbia pazienza, Mr Jiabao. Potrebbe richiedere parecchio tempo.
Quanto ci metterebbe lei a baciare 36 000 004 culi? pp.7-8

Coloro che ci vivono chiamano questo luogo le Tenebre. La prego di comprendere, Eccellenza, che l'India è due paesi in uno: un'India di Luce e un'India di Tenebre. L'oceano porta la luce al mio paese. Sulla mappa dell'India ogni luogo vicino all'Oceano è un luogo agiato. Ma il fiume porta le tenebre all'India, il fiume nero.
Di quale fiume sto parlando... quale fiume di Morte con argini di fango denso, scuro e appiccicoso la cui morsa intrappola qualunque cosa vi cresca, soffocoandola e strangolandola e opprimendola?
Be', parlo di Madre Gange, figlia dei Veda, fiume di rivelazione, protettore di noi tutti, il fiume che ha il potere di interrompere la catena delle nascite e delle rinascite. Ovuncque scorre questo fiume, lì sono le Tenebre. p.12


Il corpo di un ricco è come un cuscino di cotone di prima qualità, bianco e soffice e immavolato. I nostri corpi sono diversi. La spina dorsale di mio padre era una corda attorcigliata, come quelle che usano le donne nei villaggi per attingere l'acqua al pozzo; le clavicole gli formavano intorno al collo un rilievo pronunciato, che faceva pensare al collare di un cane; tagli e fraffi e cicatrici, come piccoli segni di frustrate sulla pelle, gli correvano lungo il torace e la schiena, giù oltre le ossa del bacino, fino alle natiche. La storia della vita di un povero è scritta sul suo corpo, con una matita ben temperata. p.21

Non si può pretendere che un uomo in un letamaio abbia un buon profumo. p.26

Nella giungla, qual è l'animale più raro... la creatura che appare in unico esemplare per ogni generazione?
Ci pensai su e dissi:
- La tigre bianca.
- Ecco cosa sei tu, in questa giungla. p.28

[...] a Laxmangarh non ci sono ospedali, anche se ci sono tre diverse prime pietre per un ospedale, posate da tre diversi politici alla vigilia di tre diverse elezioni. p.36

Mr Jiabao.

Signore,
quando lei arriverà qui, le diranno che noi indiani abbiamo inventato tutto, da Internet alle uova sode alle navi spaziali, prima che gli inglesi i rubassero l'idea.
Sciocchezze. Il massimo che questo paese abbia prodotto in diecimila anni di storia è la Stia per Polli.
Vada nella vecchia Delhi, dietro la Jama Masjid, e guardi come tengono i polli al mercato. Centinaia di galline biancastre e galli al colori vivaci, ammassati in gabbie di fil di ferro, schiacciati uno sull'altro come vermi in uno sotmaco, a beccarsi a vicenda e cagare uno addosso all'altro, ad azzuffarsi per conquistare un minimo di spazio vutale. Dalla gabbia si alza una puzza orrenda: puzza di pennuti terrorizzati. Sull atavola di legno posata sopra la stia siede un giovane macellaio ghignante, che esibisce la carne e le interiora di un pollo appena macellato, ancora ricoperto di una patina oleosa di sangue. I galli nella stia sentono l'odore del sangue. Vedono le interiora dei loro fratelli sparse intorno. Sanno di essere i prossimi. Eppure non si ribellano. Non cercano di uscire dalla stia.
In questo pease si fa esattamente la stessa cosa con gli esseri umani. p.124

La Grande Stia per Polli Indiana. In Cina avete qualcosa di simile? Ne dubito, Mr Jibao. Altrimenti non avreste bisogno del Partito Comunista per sparare alla gente e di una polizia segreta che fa irruzione di notte nelle case e arresta le persone.
Qui in India non abbiamo bisogno di una dittatura. E nemmeno di una polizia segreta.
Perché noi abbiamo la stia.
Mai prima nella storia dell'umanità così pochi hanno dovuto così tanto a così tanti, Mr Jabao. In questo paese una manciata di uomini ha addestrato il restante 99,99 per cento - uomini altrettanto forti, abili e intelligenti - a vivere in un perenne stato servile; uno stato servile radicato al punto che se dai a un uomo la chiave della sua emancipazione lui te la scaglia addosso con un insulto. p.126

Odiamo i nostri padroni dietro una facciata di amore, oppure li amiamo dietro una facciata d'odio?
La Stia per Polli in cui siamo rinchiusi fa di noi un mistero a noi stessi. p.135

I sogni dei ricchi, e i sogni dei poveri... non coincidono mai, vero?
Vede, i poveri sognano per tutta la vita di avere abbastanza da mangiare e somigliare ai ricchi. E i ricchi cosa sognano?
Di perdere peso e di somigliare ai poveri. p.161

Mi lesse un'altra poesia, poi un'altra, e mi spiegò la vera storia della poesia, che è una sorta di segreto, un sortilegio conosciuto solo dagli uomini saggi. Signor primo ministro, non scoprirà niente di nuovo se le dico che la storia del mondo è la storia di una guerra di cervelli fra ricchi e poveri che dura da diecimila anni. Cercano eternamente di mettere i paraocchi gli uni agli altri: così è fin dall'inizio dei tempi. I poveri vincono qualche battaglia (pisciando nelle pienate in vaso, prendendo a calci cagnolini, ecc.) ma naturalmente sono i ricchi che da diecimila anni vincono la guerra. Ecco perchè un giorno alcuni uomini saggi, presi da compassione per i poveri, hanno lasciato segni e simboli nelle poesie, che a prima vista parlano di rose e belle ragazze e roba del genere, ma se comprese nel modo corretto rivelano segreti che permettono all'uomo più povero della terra di condurre a termine a proprio favore la guerra dei cervelli che dura da diecimila anni. Ora, i quattro più grandi fra questi saggi poeti sono stati Rumi, Iqbal, Mirza Ghalib e un altro di cui non ricordo il nome.
(Chi era il quarto poeta? Mi manda in bestia non riuscire a ricordare il suo nome. Se a lei viene in mente mi mandi una mail.) p.183

Una rivoluzione indiana?
Nossignore. Non ci sara. Il popolo di questo paese si aspetta che la guerra per la libertà venga da qualche altra parte - dalle giungle, dalle montagne, dalla Cina, dal Pakistan. E questo non succederà mai. Ogni uomo deve costruire la propria Benares.
Il libro della rivoluzione ce l'hai nella pancia, giovane indiano. Cagalo e leggitelo.
Invece se ne stanno davanti alla Tv a guardarsi il cricket e la pubblicità dello shampoo. p.219

Questi sono i miei sogni, ma non è detto che si avverino.
A volte penso che non mi prenderanno mai. Penso che la Stia per polli ha bisogno che ogni tanto qualcuno come me riesca ad evadere. p.231


book trailer, in francese...