sabato 10 gennaio 2015

La deriva dei continenti


Russel Banks, La deriva dei continenti (Continental Drift, 1985), "Stile libero. Big",  Einaudi, Torino, traduzione dall'inglese di Paola Brusasco 2012.

È come se le creature che in questi anni vivono sul pianeta, gli esseri umani – a milioni in viaggio da soli e in famiglie, clan e tribú, talvolta come intere nazioni – fossero un sottosistema all’interno di uno piú grande di correnti e maree, di venti e condizioni climatiche, di continenti alla deriva e masse di terra in movimento che si sollevano, si scontrano, si spaccano. È come se le povere creature forcute che camminano, navigano e si muovono a dorso d’asino o di cammello, su furgoni, autobus e treni, da un’estremità all’altra di questa Terra, rispondessero tutte a forze naturali invisibili, come se fosse la gravità e non le guerre, le carestie o le inondazioni a farle scendere in rivoli dai villaggi di collina per raggrupparsi lungo le ampie sponde fangose del fiume piú a valle aspettando un passaggio su zattere che le portino al mare, e su barconi bucati al di là del mare, dove si raccoglieranno in mulinelli, riunendo le famiglie disperse e le loro poche cose per costruire case, tirar su i figli e tornare a moltiplicarsi. Mappiamo e misuriamo correnti a getto, modelli atmosferici, venti prevalenti, maree e profonde correnti oceaniche; tracciamo con esattezza scarpate, crepacci, fossati e crinali dove le placche della massa terrestre collidono; tracciamo e nominiamo le aree di influenza degli alisei sudorientali e nordorientali, dei westerlies dell’Atlantico, dei monsoni tropicali e delle calme equatoriali, dei mistral, del Santa Ana e del Canada High; conosciamo le correnti di Humboldt, della California e di Kuroshio sicché, avendole tracciate ed enumerate, possiamo osservare il pianeta e vedere che, fino al suo nucleo piú interno, la sfera inspira ed espira, si solleva e ricade, turbina e ruota in una bellissima e disciplinata danza a tempo. Invecchia e muore e rinasce costantemente attraverso il movimento, creandosi e ricreandosi come un uroburo, il serpente che si divora la coda.

In quest’epoca, all’inizio degli anni Ottanta, la maggior parte dei processi che avviene da millenni continua ad avvenire, alcuni in silenzio, lentamente, due dita per volta, chilometri sotto la superficie terrestre, altri con gran clamore, fumo e fuoco, rivoluzione, guerra e invasione, sulla superficie. Misuriamo il cambiamento geologico in millimetri per anno e, non avvertendo alcun movimento sotto i piedi, deduciamo che non è successo nulla. Analogamente, quando leggiamo i giornali e sentiamo al telegiornale della sera che c’è una rivoluzione in atto in Iran, una guerra in Iraq, soldati e carri armati stranieri in Afghanistan, poiché ogni giorno porta simili notizie in abbondanza, cancellando quelle del giorno prima – notizie sugli israeliani in Libano al posto dei reportage sui russi in Afghanistan, gli americani a Grenada al posto degli israeliani in Libano – anche qui deduciamo che non è successo nulla.

Il tasso metabolico della storia è troppo rapido per riuscire a studiarlo. È come se, seguendo il ciclo di vita – un giorno – di una singola effimera, perdessimo di vista la specie intera e il suo destino. Al tempo stesso, il tasso metabolico della geologia è troppo lento per riuscire a percepirlo, sicché, dalla nascita alla morte, ci sembra – presi come siamo dal battito del nostro singolo cuore di umani – che sul pianeta accada solo ciò che accade a noi personalmente, in privato, in segreto.

Se l’ostinata determinazione delle tribú somale che per trovare cibo, acqua e pace devono attraversare deserti e spesso perire lungo il cammino ci sembra prodigiosa, se gli afgani disposti a lasciare i loro villaggi e affrontare ghiaccio e neve e assassini sugli alti passi dell’Hindu Kush pur di non farsi sparare dalle milizie governative per aver dato rifugio una notte a qualche malconcio mujaheddin del posto, se la loro decisione di andarsene e ricominciare altrove ci sembra meravigliosa, e se la fuga di mezzo milione di contadini khmer affamati dalla Cambogia in Thailandia, dove ufficiali thailandesi comprensivi ma terrorizzati li respingono verso i luoghi in cui l’esercito vietnamita combatte ancora gli sparuti rimasugli del regime suicida di Pol Pot bruciando i pochi campi di riso rimasti, se quella incessante, inarrestabile determinazione ad andare a bussare alle porte della Thailandia finché qualcuno finalmente apre ci muove ad ammirazione, allora dobbiamo fare altrettanto. Dobbiamo attraversare deserti e spesso perire lungo il cammino, dobbiamo andarcene e ricominciare la nostra vita altrove e, quando arriviamo, dobbiamo continuare a bussare alla porta, gridando e battendo i pugni finché quelli che si ritrovano a fare i guardiani siano anch’essi mossi ad ammirazione e aprano. Il pianeta siamo noi, tanto quanto lo sono acqua terra fuoco aria, e se il pianeta sopravvive sarà solo grazie all’eroismo. Non eroismo sporadico, con qualche esempio straordinario qua e là, ma eroismo costante, sistematico, eroismo come principio dominante.

È solo dopo piú di un mese a Oleander Park, però, che Bob riesce a guardare fuori dal finestrino della macchina mentre va al lavoro e ad accorgersi dei laghi che lo circondano. È come se un passeggero su un autobus avesse letto un libro per ore e, chiudendolo, si guardasse intorno e si rendesse conto di essere nella stazione di una città sconosciuta circondato da sconosciuti. Pensava di essere solo, convinto che l’intimità del suo sogno corrispondesse alla realtà, e improvvisamente vede che il muro tutt’intorno, costruito per lui dalle sue paure e ansie, gli è molto vicino, mentre al di là del muro, per chilometri e chilometri fino all’orizzonte, si estende un mondo tutto nuovo.

I suoi desideri, quindi, gli rivelano il mondo. Le sue paure e ansie, le sue avversioni, lo oscurano.

[...] ma Eddie, come un prete poco istruito che cerchi di spiegare la messa, si fa vago e dogmatico [...]

Essere perduti vuol dire non essere in grado di tornare o di proseguire, ché non è il mondo a essere perduto, sei tu.

In un certo senso Vanise sa dove si trova. Solo che non sa dove si trova l’America. È su una spiaggia bianca dei Caraibi, c’è l’alta marea. Il vento soffia da est. Proprio davanti a lei c’è un viottolo che serpeggia nella boscaglia e, percorrendolo, scopre che porta a una strada lastricata di marna, bianco gesso ora che la luna è alta. Mentre cammina, la sua carta geografica si estende fino all’orizzonte, che continua ad arretrare in lontananza. La sua carta è una cosa vivente, che si attorciglia e si districa, si muove ondeggiando davanti a lei come una manta sfiora il fondo del mare. La sua mappa è un’evoluzione, il genere di mappa in cui devi continuare a muoverti se vuoi leggerla.

Uomini e donne cercano l’amore dell’Altro cosí da potersi lasciare alle spalle il vecchio sé, spaccato e logoro come una pelle di serpente dopo la muta, e tirarne fuori uno nuovo, pulito, lucente e scintillante di promesse e talenti mai avuti prima. Quando cerchi di conquistare l’amore di qualcuno che ti somiglia per sesso, carattere, cultura o tipo fisico, lo fai perché ami proprio quegli aspetti di te, ma quando cerchi l’amore di qualcuno diverso da te, è di te stesso che vuoi liberarti.

La marea sta salendo, lentamente, senza onde, come una vasca da bagno che si riempie [...]

Piú un uomo baratta la vita che conosce, quella davanti a sé, ricevuta per nascita e per gli incidenti e le casualità della giovinezza, piú la baratta con i sogni di una nuova vita, e meno potere ha.

Si scrivono libri – romanzi, racconti e poesie – infarciti di dettagli che tentano di spiegarci che cos’è il mondo, come se la nostra conoscenza di persone come Bob Dubois e Vanise e Claude Dorsinville servisse ad affrancare gente come loro. Non servirà. Conoscere i fatti della vita e della morte di Bob non cambia nulla nel mondo. Che noi celebriamo la sua vita e piangiamo la sua morte, tuttavia, lo farà. Gioia e lutto per la vita di altri, perfino vite del tutto inventate – anzi, soprattutto quelle – priverà il mondo di parte dell’ingordigia che gli occorre per continuare a essere sé stesso. Sabotaggio e sovversione, dunque, sono gli obiettivi di questo libro. Va’, mio libro, e contribuisci a distruggere il mondo cosí com’è.

La copertina




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