giovedì 18 dicembre 2014

La città ai confini del cielo


Elif Shafak,  La città ai confini del cielo (The Architect’s Apprentice, 2014), "La scala", Rizzoli, Milano, Traduzione dall'inglese di Beatrice Masini, 2014.

La città, ormai chiaramente definita, si apriva davanti a lui, splendente. Luce e ombre, vette e declivi. Su e giù, una collina dopo l’altra, coperte qua e là da boschetti di cipressi, sembrava un grumo di contrari. Negandosi a ogni passo, cambiando forma in ogni quartiere, affettuosa e spietata allo stesso tempo, Istanbul dava con generosità e con lo stesso respiro si riprendeva il dono.

C’era qualcosa di bello nell’aria, e se a quel tempo avesse posseduto quella parola, avrebbe definito quel qualcosa una benedizione.

Le sue parole, come increspature sulla superficie di uno stagno, si diffusero, raggiungendo le rive della folla, e da lì furono spinte indietro verso il centro, e trasformate nell’andare.

Ripiegando il cuore come un fazzoletto, Jahan vi conservava la memoria dei pomeriggi trascorsi insieme.

Non si può camminare diritti se la strada è storta.

Disse che ci sono tre fontane di saggezza a cui ogni artigiano dovrebbe bere in abbondanza: i libri, il lavoro e le strade. Leggere, lavorare e viaggiare.

Le pietre stanno ferme. Chi vuole imparare, mai.

Siamo mortali. Le decisioni sono pecore; le abitudini, il pastore.

Jahan pensava che esistessero due tipi di templi costruiti dall’uomo: quelli che aspiravano a raggiungere il cielo e quelli che desideravano portare il cielo più vicino a terra. Poi, di rado, ce n’era un terzo: quello che faceva tutte e due le cose.

«Il meretricio è come il vento» disse Balaban, «più gli metti i ferri, più scivola dai buchi.»

Non avrebbe mai osato definire amore ciò che provava per Mihrimah, eppure raccolse con cautela la parola pronunciata e rivelata da qualcun altro per stringersela al petto: non voleva lasciarla andare.

«Sei più forte. Attento, però. Se reggi una spada, obbedisci alla spada, non è il contrario. Non si può portare un’arma senza sporcarsi le mani di sangue.»

Per tutta risposta Sinan disse che la conoscenza, ilm, è un carro trainato da molti cavalli. Se uno dei destrieri comincia a galoppare più veloce, anche gli altri cavalli accelerano e il viaggiatore in carrozza, l’alim, ne trae beneficio. I progressi in un campo sostengono i progressi in altri campi. L’architettura dev’essere amica dell’astronomia; l’astronomia dell’aritmetica; l’aritmetica della filosofia; e così via.

Forse, avrebbe concluso Jahan, quando sei troppo vicino sei cieco, e solo a una certa distanza comprendi.

Stava perdendo la fede nel suo mestiere. Allora non sapeva che il valore della propria fede non dipende da quanto è solida e forte, ma da quante volte uno la perde ed è ancora in grado di recuperarla.

Jahan annuì, la gola stretta. Ricordava anche il resto. Voi siete i testimoni dei vostri rispettivi viaggi. E dunque lo saprete, se uno di voi va fuori strada. Seguite il percorso di chi è saggio, di chi è vigile, di chi ama, di chi lavora sodo.

Allora è così, pensò. Il centro dell’universo non è a est né a ovest. È dove ci si arrende all’amore. A volte è dove si seppellisce un essere amato.

«La verità è una farfalla: si posa su questo e su quel fiore. Tu la insegui con un retino. Se la catturi sei felice. Ma non vive a lungo. La verità è una cosa delicata.»

la copertina






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