sabato 9 agosto 2014

Nel tempo di mezzo


Marcello Fois, Nel tempo di mezzo, "Supercoralli", Einaudi, Torino, 2012, 272 pagine. 

Non riuscí a pronunciare per intero il suo nome. All’impiegato che glielo chiedeva riuscí a dire solo: Vincenzo.

Nel totale brunito, vinaccia, della terra arata dagli ordigni che stancamente erano piovuti dai cacciabombardieri, sopravviveva qualche accenno di verde rassegnato, polveroso.

Le terre quanto piú sono antiche tanto piú si concentrano, sono grumi calcificati nella Pangea; le nuove, ampie, terre invece, sono epidermidi sottili e delicate di neonati esposti a ogni trasformazione. Sono spazi dove il meccanismo, che ha tutto ancora da imparare, si fa cavilloso, non accetta l’insondabile, crede ogni avvenimento quantificabile e perfetto nella sua prevedibilità. È l’anzianità che smette di credere a questa perfezione, dimostrando in se stessa che non c’è niente di perfetto in un corpo che si consuma.

Quella domanda e il sole sorsero insieme.

[...] Terranova o Olbia che fosse: in tempi di regimi i nomi hanno un senso indiscutibile per chi li impone e relativo per chi li patisce.

Si fermò ad ascoltare l’aria ferma del primo mattino che portava con sé mare e terra, sabbia e roccia, che sono poi la stessa cosa in forma diversa.

Raccontavano che in quel particolare anno maledetto tutti i venti, caldi e freddi, scirocchi o tramontani, avevano cessato di soffiare. Tutto sembrava voler contribuire all’obbligo di fare silenzio.

Il cielo sopra la sua testa era stellato e luminoso. Impietosamente bello, di una bellezza semplice e totale, come il sorriso di una sposa, l’orgoglio del ragazzo che scopre di essere uomo, lo sguardo di chi si ama. Era bellezza degli umani e non delle cose, come poco prima, sotto la pioggia fangosa, degli umani era stata ogni bruttezza.

E ciò rimetterebbe a posto le cose: tenersi pronti per la carestia durante l’abbondanza. Ma quella è una saggezza talmente elementare che si frantuma al primo scossone della realtà. Che succede quando abbondanza e carestia dormono sullo stesso letto, quando c’è il cibo ma non ci sono piú le bocche da sfamare?

L’incanto dove noi posiamo il piede, che chiamiamo paradiso di boschi, di fonti, di frutti, prima era inferno, materia incandescente, lava indistinta, brodo per batteri. Siamo il risultato di una disobbedienza, e che ce la raccontino sotto forma di frutto proibito poco importa.

Lui c’aveva troppi interessi, troppi affari in giro, era uno con un’altra testa, si vede proprio che non era stato allevato da queste parti. Guardate che queste cose contano, a lungo andare una testa diversa fa la differenza.
Oh non sono mai stato speciale, ho amato le cose che amano tutti: il silenzio mattutino, le lenzuola fresche di bucato… Ho amato di innamorami. Ho amato di essere amato. Ho amato di trattenere il pianto e anche di piangere. Mai stato speciale, no. Ho amato il pane fresco e la perfezione di certe forme. Ho amato d’amare. E odiare, qualche volta, certo: non sono speciale. Neanche adesso, che è notte fonda.

A furia di ripetere, da vecchi, scopriamo d’essere meno speciali di quanto abbiamo mai creduto di essere. Scopriamo che tutti ugualmente si muore e questo ripetersi infinito non è nient’altro che negazione dell’evidenza.

 Va bene, si ricomincia.

la copertina


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