martedì 29 aprile 2014

I materiali del killer


Gianni Biondillo,  I materiali del killer, "Narratori della Fenice", Guanda, Parma, 2011, 277 pagine.

Il cielo grigio e pesante si stava gonfiando sempre più, i palazzi sembrava facessero una gran fatica a trattenerlo, a non farlo crollare sulle persone, soprattutto andando verso la periferia, dove la densità dell’incasato si diradava e apparivano condomini spaiati, casuali, totem di cemento dalle spalle larghe e gli intonaci scrostati, forse dalla fatica di reggere solitari il peso del cielo di Lombardia, che era così bello quand’era bello, così splendido, così in pace, ma che bello, splendido e in pace, diciamocelo, non lo era quasi mai.

Era irrimediabilmente un uomo del secolo scorso, che aveva costruito il suo panorama interiore, quello affettivo e simbolico, in un mondo fatto di telefono con la ghiera, di cortine di ferro, e di giornaletti pornografici. Non c’era nostalgia in lui, solo una chiara presa di coscienza: apparteneva all’ultima generazione che aveva vissuto gli ultimi rantoli del Novecento e forse anche per questo un destino beffardo l’aveva condannata all’eterna gioventù, all’attesa infinita. Poi però la biologia aveva fatto il suo dovere, senza sconti, e ora Ferraro si sentiva maledettamente vecchio senza essere mai stato davvero adulto.

Ognuno guarda con i suoi occhi, vede quello che vuole o quello che può. I ticinesi apparivano, dalle parole di Francesca, insubri esenti da maleducazione congenita anche se vagamente algidi. Per uno di Berna, forse, erano i soliti terroni caciaroni e parassitari. La crudeltà delle latitudini non dà scampo.

«No... no, non è possibile... l’ho visto ieri sera... cioè... stava bene, io...»
Come se il nostro sguardo potesse avere poteri taumaturgici. L’ho visto, era vivo, il mio sguardo lo tiene in vita, quindi non può essere morto finché non lo rivedo, io, con questi occhi.

Alla fine, senza neppure accorgersene, s’erano infognati nella Tangenziale Est. È che alla fine non ci fai caso, diventa il percorso usuale per ogni milanese, e Fusco, da buona napoletana, lo era nell’intimo (ché nessun milanese è così fanaticamente milanese come chi, non nascendoci, ha scelto di viverci, a Milano). La tangenziale, che era nata per distogliere il traffico dalla città, negli anni era diventata una sorta di circonvallazione interna della metropoli che ormai travalicava gli stretti confini comunali e si distendeva come un incoerente patchwork per buona parte della ex ridente, ex salubre ed ex fertile Pianura Padana.

Dovrebbe ammetterlo una volta per tutte che ama questa città. (Ma è Milano, solo Milano, il suo amore? O nasconde persino a se stesso la verità?) La ama quando sa ridisegnarsi, riprendere slancio, suturare sul corpo vivo le ferite, farle diventare tatuaggi indelebili. S’incanta di fronte ad un cantiere, al miracolo della creazione, resterebbe ore ad osservare il caos organizzato oltre la recinzione. Ma che ne è della memoria? È come se avesse mille anni – gli dice una reminiscenza di Baudelaire, e lui sa chi gliela lesse quella poesia –, la città sembra mutare più velocemente della vita di un uomo, che così si sente perduto, senza punti fissi.

Le facce qui sono sempre le stesse, le stesse di un secolo fa. La stessa fatica nei corpi, la stessa voglia di vita negli occhi. Non sono più facce della pianura, o degli Appennini, ora sono facce del Magreb, dell’Asia, del mondo intero, ma la voglia di essere qui, di essere milanesi è la stessa.

Le donne che hai amato ti restano addosso, sono macchie della pelle, indelebili. Di più: sono rughe sul volto, dolori articolari, carie. Il tempo ti si deposita addosso, le esperienze, i ricordi, i crolli, le ricostruzioni. Siamo carte geografiche ambulanti, di carne e sangue, ricoveri di storia e di vita. Il tuo passato lo indossi come un abito tagliato su misura. E tu sei il sarto e il cliente.

Ferraro guardò nel tondo dell’orologio pubblico. Uno di quelli con la scocca e il palo verde bottiglia, verde Milano anzi, che costellano la città e fanno sì che nessun milanese debba sentirsi mai obbligato ad uscire con l’orologio al polso. Quanti saranno? Centinaia, migliaia? Un’ossessione meneghina quella dell’orario, mai rispettata da Ferraro, ritardatario cronico e senza speranza di guarigione. Chi diavolo controllava, s’era chiesto per anni, che segnassero tutti l’ora esatta? C’è un ufficio al comune, un responsabile degli orologi di Milano? Chi li sposta avanti e li riporta indietro mesi dopo, quando scatta l’ora legale? Chi è il padrone del tempo metropolitano?

Tanto non c’era nulla da fare con la vita. Che ti piaccia o no la devi vivere. A questo punto è meglio smetterla di fare i depressi esistenzialisti. Vada come vada. Noi possiamo solo metterci la buona volontà ed un sorriso, che non guasta mai di fronte al precipizio.

Questa era la sua forza: nessuna memoria, nessuna nostalgia. Il futuro era tutto da immaginare, ed anche per questo a lei il presente non pesava affatto.

Ma in lui la malizia non aveva requie, doveva tenerla continuamente a bada. Ché il sesso, negli uomini, è tutto nella testa, è nell’immaginare di farle le cose, prima ancora di farle per davvero.

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martedì 15 aprile 2014

La commedia degli orrori


Christopher Moore, La commedia degli orrori (Pratical Demonkeeping, 1992) "I Romanzi", Sonzogno, Milano, 1992, traduzione dall'inglese di Patrizia Guariento, 292 pagine.

Ripubblicato con il titolo di Demoni. Istruzioni per l'uso, "Scatti", Elliot, Roma, traduzione di L. Fusari, 2011, 256 pagine.

«Sta’ buono. La gente ci guarda.»
«Stai cercando di fare il furbo. Che cosa è la morale?»
«È la differenza tra quello che è giusto e quello che puoi spiegare razionalmente.»
«Deve essere una cosa degli uomini.»
«Esatto.»

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sabato 12 aprile 2014

Guarda l'Eufrate rosso di sangue


Yaşar Kemal, Guarda l'Eufrate rosso di sangue (Firat Suyu Kan Akiyor Baksana,1997) "La scala", Rizzoli, Milano, 2012, traduzione dal turco di Simone Abramo e Pinar Gökpar, 408 pagine.

Non esiste riparo dal vento della Storia. 

Il Mediterraneo era tutto azzurro. La luce penetrava in ogni interstizio.
Scendeva la pioggia, una pioggia di luce rosa.

Per come la vedo io…» La voce gli tremò, «per come la vedo io, l’essere umano è per natura in cammino, nomade su questa terra. Al mondo, soltanto gli uccelli e questa gente infelice devono migrare.»

Il fuoco acceso al centro del cortile si era trasformato in brace. E le braci del legno d’ulivo non fanno quasi cenere. L’ulivo non brucia come gli altri legni, la sua luce si vede nel buio a una grande distanza.

Solo il volto di chi aveva molto sofferto, di chi aveva sopportato un dolore infinito poteva avere quell'espressione. Un momento sono colmi di sofferenza, un attimo dopo ridono a piena bocca, come se il dolore non li avesse mai sfiorati.

Accanto al muro di quello di mezzo erano spuntati dei fichi selvatici. I fichi selvatici sono un flagello. Gli basta un muro senza padrone, un rudere, che subito attecchiscono. Crescono persino sulle rocce. È una pianta spudorata, con dei fiori gialli, minuscoli, capace di mettere radici persino sul marmo lucidato.

Vasili si sedette proprio in cima, su una roccia che aveva la sagoma di una poltrona e assistette alla discesa del sole sul mare, alla creazione di un luminoso, nuovissimo mondo. Sbocciò, un sublime fiore arancione, a dispetto di tutto, anche delle guerre, delle torture e della fame. Si riempì di allegria. E ridiscese con questa letizia addosso. La tempesta che agitava il mare da lì non si avvertiva, solo una lingua di vento faceva ondeggiare debolmente i fiori, le foglie e l’erba. Il gatto era arrivato e si strusciava sulle sue gambe. Quando lo prese in braccio cominciò subito a fare le fusa.

Da che gli uomini sono uomini, si sono sempre circondati di simboli.

«È sorprendente» disse la principessa. «Ogni statuetta proviene da una civiltà diversa. Sembra che i popoli della Mesopotamia per migliaia di anni abbiano fondato ogni giorno un mondo nuovo.»

«Queste guerre ci hanno rovinato. La paura ormai l’abbiamo nelle ossa. O abbiamo un terrore da morire, oppure non ci curiamo di nulla. Abbiamo perso ogni cosa, anche il senso di umanità. Queste guerre si sono portate via tutto ciò che avevamo. Il nostro cuore è stato denudato. I morti sono morti e quelli che non sono morti sono comunque a pezzi, dilaniati. Ringraziamo il cielo di essere ancora capaci di avere paura. Non l’abbiamo ancora perduta questa facoltà. Immagina cosa accadrebbe se dovessimo perdere anche il sentimento della paura!…»

Quando l’imbarcazione prese il largo, Lena versò un secchio d’acqua dietro di loro, sul legno del molo. Il gesto con cui da quelle parti si augura un buon viaggio e un ritorno rapido. «Va’ come l’acqua e torna come l’acqua» significa.

Il suo volto si era trasformato in un fiore di gioia, di un rosa perfetto.

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